Diritto al compenso dell’Amministratore unico di società.
Non sembrava ancora chiaro se l’amministratore Unico di società per il proprio incarico avesse diritto ad essere ammesso al passivo fallimentare per il credito derivante dalla mancata retribuzione.
Quando non vi siano riferimenti statutari secondo cui l’amministratore svolge gratuitamente il suo incarico, è giusto oltre che logico presumerne il compenso. Pertanto è legittima la pretesa avanzata verso il fallimento della società e mirata ad ottenere all’ammissione al passivo per il credito vantato a titolo di retribuzione non corrisposta (Cassazione, ordinanza n. 1673/21, depositata il 26 gennaio).
In Tribunale viene «rigettata l’opposizione proposta» dal lavoratore «avverso lo stato passivo della s.r.l.» da cui «era stato escluso il credito di oltre 65mila euro» da lui vantato «a titolo di retribuzione non corrisposta per quasi due anni quale compenso di amministratore unico».
Per i Giudici di merito è evidente il difetto di prova, poiché «né dalla visura camerale da cui risultava la nomina ad amministratore, né dall’elaborazione delle “buste paga” siccome provenienti dal creditore quale legale rappresentante della società (pure in difetto di prova sulla specifica attività svolta), era stata offerta adeguata dimostrazione della determinazione del compenso e pertanto della sua spettanza» in favore del lavoratore. E «nemmeno ciò si poteva ricavare, secondo il Tribunale, dal subentro alla precedente amministratrice».
Col ricorso in Cassazione il legale del lavoratore contesta «l’esclusione dell’onerosità» dell’incarico di amministratore unico della società, e ribatte, invece, che «l’onerosità dell’attività è presunta, salvo espressa rinuncia».
Inoltre, egli pone in evidenza «il valore probatorio delle “buste paga” nel loro valore ricognitivo in ordine alla spettanza degli emolumenti in esse indicati, mai oggetto di contestazione», e in questa ottica vengono aggiunti anche «la dichiarazione, ammissiva della corresponsione di un compenso in favore del lavoratore, del presidente del collegio dei sindaci della socia controllante» e «l’incarico al lavoratore, quale amministratore unico, di presentazione dell’istanza di fallimento in proprio della società nell’assemblea sociale».
I Giudici della Cassazione ritengono fondate le obiezioni, soprattutto perché «l’incarico di amministratore di una società ha natura presuntivamente onerosa, sicché egli, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto di essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli», diritto, questo, che è però «disponibile e pertanto derogabile da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, ovvero sancisca la gratuità dell’incarico».
Fondamentale, quindi, è valutare «la natura onerosa, piuttosto che gratuita, dell’attività di amministratore di società». E in questa vicenda «non vi è stata allegazione alcuna di una previsione statutaria di gratuità dell’incarico amministrativo», e ciò significa che in un nuovo processo in Tribunale bisognerà provvedere alla «determinazione del compenso spettante all’amministratore» – catalogabile come credito verso la società fallita –, proprio alla luce del principio giuridico di «onerosità dell’attività prestata».
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 1673/21; depositata il 26 gennaio